
Azione cattolica e Unione femminile
Formazione e Parola di Dio al centro dell’Ac
“Noi non facciamo abbastanza per i fedeli. È più semplice fornire una tesi cui aderire e imporre un rituale. Ma la fede implica formazione, riflessione, condivisione, comprensione“. Con queste parole il cardinale Gianfranco Ravasi rispondeva ad una domanda sulla diffusa crisi di fede alla quale assistiamo.
L’Azione cattolica ticinese è ben cosciente che la strada indicata da Ravasi sia quella da percorrere. Giovani e adulti insieme inizieranno un percorso formativo per ritrovare le ragioni della fede in Gesù Cristo, al quale crediamo e abbiamo donato la nostra vita perché lui ci dona la vita vera.
Sarà un percorso di formazione cristiana, associativa e umana. Una formazione in sintonia con la Chiesa e con i suoi pastori, Francesco e il vescovo Valerio. Una formazione rispettosa delle persone che vi aderiscono, dei loro limiti, delle loro esigenze, del tempo che ciascuno può mettere a disposizione.
Al centro di questa formazione – anzi, al cuore di questa formazione – ci sarà la Parola di Dio. L’esperienza di un gruppo di persone che tutti i mercoledì dell’anno si ritrova al Centro San Giuseppe di Lugano per riflettere sul Vangelo della domenica successiva, sta diventando una consolidata occasione per crescere anche come gruppo.
L’obiettivo dei prossimi mesi, che deve diventare obiettivo di sempre, sarà dunque nelle parole di Ravasi: formazione, riflessione, condivisione e comprensione per crescere come laici cristiani che operano insieme per il bene delle donne e degli uomini che incontriamo.
Luigi Maffezzoli
La famiglia più bella dobbiamo ancora vederla
La sfida della famiglia è il futuro, non il passato
di Mauro Magatti
La portata e la velocità delle mutazioni che hanno investito la sfera della vita famigliare sono impressionanti: liberalizzazione sessuale, divorzio, aborto, coppie di fatto e omosessuali, transgender, riproduzione assistita.
Nel giro di un paio di generazioni, una delle più antiche istituzioni su cui si è fondata la cultura occidentale (basta un viaggio in Africa per rendersene conto) è diventata un’altra cosa. Indebolendone e ibridandone i legami — considerati troppo onerosi rispetto alla libertà fluttuante dell’Io contemporaneo — la nostra società ha rimesso in discussione, per prima volta nella sua storia, la struttura classica della famiglia, costruita attorno al nesso intergenerazionale ed eterosessuale.
Toccando un punto molto delicato della vita individuale e collettiva, una tale mutazione produce posizioni polarizzate, che si confrontano per lo più a colpi di slogan quando non di insulti. Il che non aiuta a riflettere sulle implicazioni di quanto sta accadendo. Dal lato dei progressisti, l’argomento su cui si insiste è quello della libertà e della non discriminazione delle differenze. Perché la legge dovrebbe sindacare il modo in cui le persone si amano? Come non concordare con una tale affermazione? Assumendo, implicitamente, che lo spazio pubblico sia la somma di decisioni individuali, tale posizione sottovaluta però sia le condizioni che le conseguenze aggregate della trasformazioni in corso. Da una parte, le posizioni progressiste sembrano incuranti del nesso tra individualizzazione-tecnicizzazione-commercializzazione di cui si nutrono i mutamenti in atto.
Siamo sicuri che il modello di famiglia oggi proposto non sia semplicemente funzionale alla società tecnocentrica? E soprattutto, come non vedere che il processo in corso — nascendo dall’incontro tra diritti individuali e possibilità tecniche — va nella direzione di ridurre la generazione a fabbricazione, con rischi incalcolabili dal punto di vista della libertà (come Hannah Arendt ha insegnato)? Dall’altra parte, sul versante delle conseguenze, la dissoluzione della famiglia aumenta il numero delle persone sole: già oggi in Italia siamo a 9 milioni (di cui poco meno di 5 con meno di 65 anni). Per questa via, quale tipo di società si costruirà nel lungo periodo? Tanto più che, come dice l’evidenza empirica, la famiglia instabile o multipla può non essere un problema per i forti e i ricchi; ma diventa un fattore di impoverimento ulteriore per chi è più fragile o svantaggiato.
Chi difende la famiglia tradizionale ricorda che si tratta di un organismo sociale a cui è demandato il compito di occuparsi di due questioni — la riproduzione biologica e la vita sessuale — che vanno protette da ogni tipo di colonizzazione. Sulla scorta di una storia millenaria, si riconosce alla famiglia il ruolo di insostituibile palestra dell’alterità concreta. Ci sono però diversi problemi che rimangono aperti. In primo luogo, dato che le cose sono già cambiate, che fare con le tante situazioni che già esistono? Come combinare il sostegno alla famiglia «riproduttiva» con il rispetto e la regolazione giuridica di altri legami che la cultura contemporanea ha ormai diffusamente introdotto?
In secondo luogo, per quanto sia chiaro che la famiglia (di qualsiasi tipo sia) abbia sempre una connotazione istituzionale, si converrà che la famiglia non può essere imposta per legge. Essa deve conquistare il suo consenso sul campo. Nella vita concreta delle persone. E partendo da qui, come negare che la crisi della famiglia dipende dal non essere riuscita a rispondere adeguatamente alle sfide poste dalla modernità avanzata? Ricorrere alla politica non è una scorciatoia pericolosa? Tanto più che non si può essere tanto ingenui da non vedere che la «difesa della famiglia» è (non da oggi) oggetto di strumentalizzazione da parte di forze politiche che hanno a cuore solo le prossime elezioni. E infine, perché «famiglia tradizionale»?
La famiglia non è un modello statico, ma una realtà viva, capace di adattamento alle diverse situazioni storiche. Perché rendere la famiglia oggetto di difesa invece che di proposta? I temi su cui lavorare sarebbero diversi. Penso, in primo luogo, ai rapporti di genere, che ancora aspettano di diventare pienamente rispettosi e valorizzanti la diversità. Penso, poi, ai rapporti tra le generazioni, ormai già cambiati in relazione alla ridefinizione della autorità oltre che all’allungamento della vita. Penso, infine, alle forme di vita e dell’abitare: il nucleo isolato della società industriale è anacronistico.
Per respirare e rinnovarsi, la famiglia deve tornare a vivere e ad associarsi con altre famiglie. Con vantaggio proprio e dell’intera società. Sollecitata dal cambiamento in atto, la famiglia — al di là delle sterili polemiche urlate — sopravviverà se saprà rilegittimarsi come nodo di relazioni dove la differenza — tra i generi e le generazioni — non si trasforma in disuguaglianza e dominio ma riesce a essere elaborata a vantaggio della libertà di tutti.
A dispetto tanto di coloro che la vogliono liquidare quanto di coloro che la vogliono ossificare, la famiglia sopravviverà se, trasformandosi, scommetterà sul suo futuro più che sul suo passato. La famiglia più bella dobbiamo ancora vederla.
in “Corriere della Sera” del 25 marzo 2019
Ritiro spirituale col Vescovo Valerio: un’occasione
straordinaria per chi cerca silenzio e preghiera
22-24 aprile: Segnate la data sulla vostra agenda: seguiranno ulteriori informazioni

Vite esemplari legate all’AC: VITTORIO BACHELET
Il 12 febbraio 1980, al termine di una lezione, il testimone della fede Vittorio Bachelet, giurista e dirigente dell’AC, veniva assassinato da un commando delle Brigate Rosse (di cui faceva parte Annalaura Braghetti) nell’atrio della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, con sette proiettili calibro 32 Winchester.
Nato il 20 febbraio 1926 a Roma, ultimo dei nove figli di Giovanni, ufficiale dell’esercito, e di Maria Bosio, ancora bambino si iscrisse all’Azione Cattolica, presso il circolo parrocchiale di sant’Antonio di Savena.
Dopo la maturità classica si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza e iniziò la militanza nella FUCI, sia nella sezione romana, sia nel centro nazionale. Diverrà condirettore di “Ricerca”, il periodico della federazione universitaria.
Il 24 novembre del 1947 si laureò con una tesi di diritto del lavoro su “I rapporti fra lo Stato e le organizzazioni sindacali” (votazione 110/110); suo relatore fu il prof. Levi Sandri. Nell’anno accademico 1947-48 era assistente volontario presso la cattedra di Diritto amministrativo presso l’Università La Sapienza. Intanto divenne redattore capo della rivista di studi politici Civitas, diretta da Paolo Emilio Taviani, della quale nel 1959 divenne vicedirettore, e ottenne diversi incarichi presso il CIR (Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, l’attuale CIPE) e la Cassa per il Mezzogiorno. Il 26 giugno 1951 si sposava con Maria Teresa (Miesi) De Januario. Il 13 aprile 1952 nasceva la figlia Maria Grazia. Tre anni dopo, il 3 maggio 1955, nasceva il figlio Giovanni. Nel 1957 otteneva la libera docenza in Diritto amministrativo e in Istituzioni di diritto pubblico e iniziava la sua carriera di professore universitario: fu dapprima docente di Diritto amministrativo presso la Scuola di applicazione della Guardia di Finanza e presso l’Università di Pavia, poi presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Trieste e, dal 1974, professore ordinario di Diritto pubblico dell’economia presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma. Non abbandonò mai la militanza nell’Azione Cattolica e ne divenne uno dei principali dirigenti nazionali. Papa Giovanni XXIII nel 1959 lo nominò vicepresidente dell’Azione Cattolica Italiana: nel 1964 Paolo VI lo elesse Presidente generale per la prima volta, poi verrà riconfermato anche per i due mandati successivi, fino al 1973. In tale veste si adoperò per adeguare l’AC allo spirito del Concilio Vaticano II, spingendo per la democratizzazione della vita interna e per la valorizzazione della funzione dei laici nella vita ecclesiale. Promosse anche un progressivo distacco dell’associazione dall’impegno politico diretto. Ricoprì anche la carica di vicepresidente del Pontificio consiglio per la famiglia, della Pontificia commissione Justitia et Pax e del Comitato italiano per la famiglia. Il 21 dicembre 1976 venne eletto vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, del quale faceva parte quale componente eletto dal parlamento in seduta comune.
*** *** ***
MIGRANTI 9 – Card. Gianfranco Ravasi
Il soffio del «wind» cristiano
«Per noi fascisti le frontiere sono sacre. Non si discutono: si difendono». Così proclamava con l’enfasi che gli era incorporata Benito Mussolini nel discorso del 16 marzo 1938 alla Camera dei deputati. Parole che, declinate in forme diverse, sono sulle labbra dei nazionalisti e dei sovranisti di ogni tempo, compreso l’attuale. Ben differente è la concezione dell’autentica cultura che, senza ignorare le identità, riconosce che il vero sapiente è methórios, cioè colui che sta «sul confine» dove si allargano i diversi territori, pronto sempre a valicarli per scoprire nuovi orizzonti: il vocabolo greco è del filosofo ebreo alessandrino del I sec. d.C. Filone. Un suo contemporaneo, l’apostolo cristiano Paolo di Tarso, non esitava a dichiarare che «non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3,28), e scrivendo ai cristiani di Colossi allargava lo spettro delle frontiere introducendo «i barbari e gli sciti» (Colossesi 3,11).
Ora, l’editrice milanese Áncora da tempo ha inaugurato una collana intitolata proprio «Maestri di frontiera», rimandando a una particolare tipologia di persone: non credenti, forse agnostiche o indifferenti o provocatrici, non esitano però ad affacciarsi sulla regione della trascendenza e della fede, scrutandola come un abisso infernale o un Eden paradisiaco o semplicemente come una terra ignota, diversa rispetto a quella ove sono impiantati i loro piedi. Spesso, poi, accade che costoro, a differenza degli immobili e roboanti sciovinisti, sono persone dinamiche, convinte che le frontiere non sono ad est e ad ovest, a nord o a sud, ma dove un uomo incontra e si scontra con l’altro. È quello che suggeriva uno degli scritti più originali del primo cristianesimo, la cosiddetta Lettera a Diogneto, la quale, paragonando la presenza onnicomprensiva dell’anima nel corpo umano, affermava che «i cristiani abitano ciascuno la loro patria ma come forestieri… Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è terra straniera».
Ebbene, se scorriamo l’elenco dei volumi della collana a cui accennavamo, ci imbattiamo in una pattuglia di scrittori veramente methórioi, da Pirandello a Pasolini, da Pavese a Buzzati, da Quasimodo a Cristina Campo, da Saint-Exupéry ad Antonia Pozzi, da Flannery O’Connor a Beckett. Ma ci incontriamo anche con un variegato arcobaleno di voci di cantautori, da De André a Gaber, da Baglioni a De Gregori, da Branduardi e Battiato fino a Vasco Rossi, e non manca persino una puntata nel mondo delle «strisce» col delizioso e geniale Snoopy, il cane inventato dalla matita di Charles Schulz, l’autore dei Peanuts con Linus, Charlie Brown e Lucy.
Ora la collana introduce un vero e proprio monumento cartaceo eretto in onore del Nobel 2016 Robert Allen Zimmerman, alias Bob Dylan. Un ricercatore, Renato Giovannoli, consacra infatti a questo personaggio qualcosa come 1132 pagine distribuite in 3 tomi (il solo apparato degli indici occupa ben 110 pagine), e non per una biografia generale, bensì solo per tratteggiare la presenza della Bibbia nell’opera e nella vita di Dylan. È, però, vero che questo monumentale saggio riesce a ricomporre anche un ritratto completo del «menestrello», facendo emergere in filigrana la sua vicenda interiore e il suo complesso e variegato rapporto con la religione. D’altronde anche gli interessi di Giovannoli, testimoniati dalla sua bibliografia, lo rivelano come un uomo di frontiera che passa dallo studio della fantascienza a quello del poliziesco fino alla radiografia biblicofilosofica di un personaggio così sfuggente com’è Lewis Carroll con la sua Alice, immersa nel paese delle meraviglie oltre le frontiere del reale.
Chi si accinge a vivere l’avventura proposta da questo studioso deve sapere che s’imbatterà in pagine che sono un costante palinsesto o, se si vuole, un intarsio per cui avrà la possibilità di leggere quasi tutti i testi di Dylan e di penetrare negli angoli più segreti della sua mente, anima e cuore, anche perché la trilogia scandisce altrettante fasi biografiche. Si parte nel 1961 quando il cantante ebreo del Minnesota è ventenne ed entra in scena come un «profeta minaccioso», nutrito di protesta; ma ben presto egli s’affaccia sull’orizzonte mistico-escatologico-apocalittico, che lo alonava fin dalla sua nascita, per poi attraversare una foresta di «parabole enigmatiche» che sfociano in una vera e propria innologia orante, in un’eucologia sacrale (ad esempio, «Ringrazierò sempre il Signore» o «Padre della notte, Padre del giorno, Padre che porti via le tenebre»). Ormai accanto a lui si leva anche una «mystical wife» che non gli risparmia però la solitudine della «notte oscura».
Tuttavia, l’alba è in agguato e, proprio secondo la legge dell’oscillazione delle frontiere, ecco la sua conversione al cristianesimo che lo conduce nel 1979 al battesimo all’interno di una comunità evangelica. Si inaugura, così, l’arco dei «Salmi, inni e spiritual songs» (citazione paolina) che Giovannoli vaglia con un’impressionante acribia esegetica. Ma, per quella mobilità che era sua insegna, nel 1981 si notano i segni di una crisi e di un’evoluzione. In filigrana permane il grande codice biblico che per lui è come il vocabolario a cui attingere per cristallizzare nelle parole e nella musica l’incandescenza della sua ricerca che non esita a contaminarsi anche con altre espressioni artistiche, come l’iconografia cristiana (ad esempio, Mantegna o Bosch o Signorelli o Blake).
Siamo nel 1988 e Dylan sembra precipitato fuori dal groove (come dice il titolo di un suo album), cioè dal «solco» della vita che è anche, in inglese, il tracciato del vinile. Ma questa caduta apocalittica non è per una morte spirituale. È, invece, la nuova frontiera che lo conduce all’ultima fase esaminata da Giovannoli che va fino al 2012 e che è definita come «un nuovo inizio e la maturità». Qui le iridescenze sono molteplici e il critico deve lavorare con estrema acribia per individuare sia i rimandi biblici – che talora sono solo ammiccamenti e allusioni – sia il cammino della rinascita di Dylan che ha nell’album On Mercy (1989) il suo vessillo. La cronologia e la produzione comprendono un arco molto ampio ove elementi religiosi s’intrecciano ad arabeschi esoterici, trasparenze cristiane come Christmas in the Heart (con l’Adeste fideles) si accosta a una impudica Charlotte the Harlot, che echeggia la Grande Prostituta dell’Apocalisse, posta però in contrasto con una Mary che, secondo Giovannoli, sarebbe la madre di Gesù.
Fermiamoci qui in questa evocazione «impressionistica» di un lavoro «impressionante» attorno a un autore così proteiforme e spesso indecifrabile che, però, indubbiamente si è non solo affacciato ma ha varcato la frontiera della religiosità usando come passaporto la Bibbia, il cui repertorio di citazioni e allusioni è minuziosamente catalogato da questa trilogia che è ben più di un’esercitazione tematica «esegetica» ma – come si diceva – una vera e propria biografia spirituale e culturale del «menestrello». Un personaggio – se è lecita un’appendice personale – che ho avuto l’occasione di ascoltare e vedere dal vivo in un contesto sorprendente: al congresso eucaristico di Bologna il 27 settembre 1997, mentre si esibiva davanti a Giovanni Paolo II, proprio col suo celebre Blowin’ in the Wind.
Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2018)
*** *** ***
MIGRANTI 8 – Diaconia Valdese
FATELI SCENDERE
La vicenda della nave italiana “Diciotti” costretta dal proprio governo a non sbarcare i circa 150 migranti raccolti in mare ha tenuto banco sulle pagine dei giornali d’Europa anche per il valore simbolico della vicenda. L’umanità, le legge e il buon senso sono stati messi da parte in nome di un principio assoluto e soggettivo: nessun migrante deve più sbarcare in Italia.
Tra i molti interventi, abbiamo deciso di pubblicare quello della Commissione Sinodale per la Diaconia Valdese che si è chiesta cosa avrebbero fatto Patriarchi o personaggi biblici, e cosa avrebbe fatto Gesù se fossero stati a bordo di quella nave. “Fateli scendere!” è il grido e l’appello al quale ci associamo idealmente. Ancora adesso che sono scesi tutti e accolti secondo umanità, legge e buon senso anche dalla Chiesa cattolica. (Luigi Maffezzoli)
Noè li avrebbe fatti scendere. Avrebbe mandato una colomba a cercare terra dove poggiarsi. Li avrebbe fatti scendere. Insieme avrebbero ringraziato Dio di un viaggio conclusosi bene, di un diluvio finito.
Abramo li avrebbe accolti sulla banchina, o accanto alle querce di Mamre, o sotto al Castagno dei cento cavalli sull’Etna. Avrebbe offerto loro da mangiare e Sara avrebbe sorriso alle loro parole.
Giuseppe li avrebbe fatti scendere. Venduto da schiavo come loro, loro compagno di prigionia e di sogni. Li avrebbe fatti scendere.
Mosè li avrebbe fatti scendere. E li avrebbe fatti conoscere a uno dei suoi figli chiamato Straniero. Avrebbero discusso insieme del deserto, della fame e della manna e di una legge antica che lui conosceva e che dice “tratterete lo straniero che abita tra voi come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso”.
Davide li avrebbe fatti scendere. Avrebbe suonato una canzone con loro e per loro ne avrebbe scritta un’altra.
La vedova di Serepta li avrebbe fatti scendere e avrebbe condiviso con loro e con Elia il profeta la poca farina rimasta.
“Guardate! Questi vengono da lontano!” – avrebbe detto il profeta Isaia – “Esultate, cieli, e tu, terra, festeggia! Prorompente in grida di gioia, monti, poiché il Signore consola il suo popolo e ha pietà dei suoi afflitti”. E li avrebbe fatti scendere.
La samaritana li avrebbe fatti scendere e avrebbe offerto loro da bere l’acqua del pozzo di Giacobbe, o quella dei cannola dell’Amenano.
E i discepoli del Signore li avrebbero fatti scendere. Li avrebbero fatti sedere a gruppi di cento e di cinquanta, insieme a noi italiani, e avrebbero offerto a loro e a noi i pochi pani e i pochi pesci a disposizione. Se noi dividiamo il Signore moltiplica e c’è cibo per tutti.
E Gesù finalmente sarebbe sceso.
Fateli scendere!
Commissione Sinodale per la Diaconia (25.8.2018)
*** *** ***
MIGRANTI 7 – Étienne Balibar
LES ERRANTS
Les errants ne sont pas une classe. Ils ne sont pas une race. Ils ne sont pas la multitude. Je dirais qu’ils sont une partie mobile de l’humanité, suspendue entre la violence d’un déracinement et celle d’une répression… où se concentrent les inégalités du monde actuel.
Étienne Balibar
I migranti non sono una classe. Non sono una razza e neanche una moltitudine. Direi piuttosto che sono una parte mobile dell’umanità, sospesa tra la violenza di una pulizia etnica e quella d’una repressione… dove si concentra l’ineguaglianza del mondo contemporaneo.
(Étienne Balibar)
*** *** *** ***
MIGRANTI 6 – Paolo Rumiz
Mini-sillabario antirazzista
Come rispondere al razzismo aggressivo e manifesto senza mettersi sullo stesso piano di violenza verbale? Sono in tanti a tacere per questo timore, ma è un chiamarsi fuori che non paga. Il demoniaco sproloquio sul web dilaga anche perché sono forse troppo pochi quelli che hanno animo di rispondere pubblicamente, sul treno, per strada, al bar. La prima, vera guerra da combattere è contro il silenzio. Brecht scrisse: «Non si dica mai che i tempi sono bui perché abbiamo taciuto». E i tempi furono bui per davvero.
Non è la xenofobia il problema: ad essa va prestato attentamente ascolto. Essere inquieti di fronte all’Altro è un riflesso naturale e umano. Sbaglia chi non sa ascoltare questa paura. La classe politica ha il dovere di capire e gestire le tempeste identitarie generate dalla società globale per evitare che diventino odio, perché con quell’odio, poi, non si potrà più ragionare. È quanto accade sempre più spesso oggi.
Oggi siamo oltre il limite. Ed è diventato indilazionabile chiedersi in concreto con che parole rispondere a caldo, in modo efficace, alle provocazioni, stante che non serve porgere l’altra guancia, belare come agnelli o lanciarsi in raffinati pensieri. Bisogna avere a disposizione un’arma. Un vocabolario forte, metaforico, fulminante, capace di viaggiare su registri diversi. Qui provo a proporre un primo, un modesto arsenale di parole, una piccola officina che faccia da base per un vocabolario antagonista alle parole ostili.
LA PREGHIERA «Prego perché tuo figlio non debba mai finire dietro un reticolato e perché tu non debba mai essere guardato come un miserabile. Prego Iddio che il tuo denaro e il tuo passaporto non siano mai rifiutati come carta straccia da un agente di polizia. Invoco il Signore perché i tuoi nipotini non debbano passare inverni nel fango, sotto una tenda, a mezzo chilometro da un cesso comune, con gli scorpioni e i serpenti che si infilano nelle loro coperte. Prego perché il tuo focolare non si riduca a un mucchietto di legna secca e il tuo unico contatto con la famiglia lontana sia il telefonino. Prego soprattutto perché tu non debba mai udire, rivolte a te, parole come quelle che hai appena pronunciato».
L’AUGURIO «Vorrei che tu non diventassi mai un miserabile, perché lo si diventa in un attimo. Basta molto meno di una guerra. È sufficiente un terremoto, un’alluvione. Una malattia, un tradimento, una truffa, un divorzio, un licenziamento, un bancomat che si nega allo sportello. Mio nonno emigrò per fame in Argentina, fece fortuna, poi la banca con tutti i suoi risparmi fallì e lui morì di crepacuore a quarant’anni, lasciando la famiglia in miseria. Oggi è peggio. Si diventa superflui per un nonnulla. Ti licenziano con un Sms. Anche senza emigrare».
L’ACCUSA «A sentire parole come le tue, se fossi un terrorista dell’Isis mi fregherei le mani. Penserei: che bisogno ho di fare altri attentati? Questi europei sono la mia quinta colonna. Si dividono invece di unirsi. Alzano reticolati fra loro. Risuscitano frontiere morte e sepolte. Picconano i loro valori: il laicismo, le garanzie, l’educazione scolastica. Invocano lo stato di polizia. Odiano le vittime del nostro stesso odio. Allontanano proprio quelli che meglio conoscono il loro nemico e potrebbero proteggerli dalla nostra aggressione. Cosa posso chiedere di più?».
L’IRONIA «Bravi! Quando non ci saranno più stranieri, tutti i problemi saranno risolti. Niente più evasori fiscali, niente più debito di Stato, esportazioni di capitali, banche rapinate, assenteismo, inquinamento, disoccupazione, camorra, istruzione a pezzi… niente più ladri e imboscati, niente più congreghe di raccomandati che costringono i nostri figli a emigrare… Ma già, tu non chiami “emigrazione” quella dei tuoi figli, anche se finiscono nei call center con paghe da fame: la chiami “mobilità”, perché credi che a emigrare siano solo quelli con la pelle di un altro colore».
LO SFOTTIMENTO «Urla, urla pure contro i migranti… Urlare è l’unica libertà che hai… Avrai tutti i megafoni che vuoi… Ti lasceranno fare perché le tue urla fanno il gioco dei potenti. Servono a coprire le loro responsabilità. A impaurire gli stranieri e abbassare il costo del lavoro. Le mafie, la grande distribuzione, l’alta finanza sentitamente ringraziano. Ma sappi che dopo gli stranieri toccherà ai tuoi, ai nostri figli. Non è mai stata inventata una forma più perfetta e perversa di dominio».
IL GHIGNO «Però ti fa comodo che non tocchi a tuo figlio scannare galline in serie, sotterrare morti, pulire cessi e sottoscala, conciare pelli puzzolenti, raccogliere pomodori a cottimo, scuoiare manzi abbattuti, pulire i nostri vecchi in casa o in ospedale… Ti fa comodo, confessa, che ci siano gli stranieri. Il problema è che vorresti che, finito l’orario di lavoro, sparissero e che l’happy hour fosse solo per i tuoi figli. E io so perché: perché hai paura di conoscerli, gli stranieri. Perché se li conoscessi sapresti che sono come noi. E allora capiresti che il cerchio si chiude. Capiresti che dopo di loro toccherà a noi scannare galline in serie, pulire cessi e conciare pelli puzzolenti».
LA COMMISERAZIONE «Vedi, io ho un’immensa pietà per quello che dici. Me ne dispiace. Perché se Gesù bambino tornasse, con sua madre, suo padre e l’asinello, lo chiuderesti in un centro di espulsione. Guai pensare che c’è qualcuno fuori al freddo. Sono cose pericolose. Fanno venire scellerati pensieri di frugalità… Non sia mai che la macchina del consumo rallenti prima di aver raschiato il fondo del barile. Perché solo allora capiremo che tra ghetti e agenzie di lavoro interinale, tra mafia e call center, tra il caporalato e le ottanta ora settimanali di lavoro inflitte legalmente da aziende senza patria, tra gli schiavi dei pomodori e i profitti dei signori in grigio non c’era nessunissimo confine».
L’AVVERTIMENTO «Ti piace Trump? Ti piacciono Theresa May e Marine Le Pen? Guardati dai falsi profeti, dai ladri e dagli scassinatori, guardati dai clown che recitano copioni da tragedia, dai contrabbandieri e dai seminatori di zizzania. Solo un’immensa, planetaria ingenuità può farti credere che un miliardario possa farsi paladino degli ultimi. Solo una colossale ignoranza, dopo due guerre mondiali, dopo l’autodistruzione della Jugoslavia e i massacri in Ucraina, può farti credere ancora alle parole di chi invoca la costruzione di muri nel nome delle nazioni. Additare nemici è l’ultima risorsa dei governanti incapaci».
LA MALEDIZIONE «Via dall’Euro? Abbasso l’Europa? Vai, vai pure. Poi te lo paghi tu il mutuo. E dimmi, dove andrai? A diventare una colonia cinese? Ricordati la notte dell’Europa! Ricordati che ci siamo già suicidati due volte! Perfino il fascismo era meglio del berciare analfabeta! Oggi è Mein Kampf più Facebook, un’idea di stato governato da sceriffi e regolato dal porto d’armi universale. È questo che vuoi? Ricordati dei giornalisti uccisi! Ricordati che ci sono luoghi dove per il diritto all’informazione si muore!».
LE CITAZIONI «Non molesterai lo straniero, né l’opprimerai, perché foste anche voi stranieri in Egitto. Bibbia, Deuteronomio, 10.14 e 16-19». E ancora, anche se il rimando non è letterale: «Omero, Odissea, canto sesto. E Ulisse si accasciò sulla spiaggia dei Feaci, orrido a vedersi, ma Nausicaa, la figlia del re, non scappò da lui, gli diede di che mangiare, lavarsi e rivestirsi, e poi disse: raccontami la tua storia, straniero».
Paolo Rumiz (La Repubblica, 20 maggio 2017)
*** *** ***
MIGRANTI 5 – Conferenza Episcopale Italiana
Migranti, dalla paura all’accoglienza
Non servono molte parole per introdurre questo intervento dei vescovi italiani. Basterebbe una foto. La foto che hanno voluto mettere in testa al loro documento. Resta il messaggio, che dovremmo predicare sui tetti perché è Vangelo: dalla paura all’accoglienza.
Gli occhi sbarrati e lo sguardo vitreo di chi si vede sottratto in extremis all’abisso che ha inghiottito altre vite umane sono solo l’ultima immagine di una tragedia alla quale non ci è dato di assuefarci.
Ci sentiamo responsabili di questo esercito di poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture. È la storia sofferta di uomini e donne e bambini che – mentre impedisce di chiudere frontiere e alzare barriere – ci chiede di osare la solidarietà, la giustizia e la pace.
Come Pastori della Chiesa non pretendiamo di offrire soluzioni a buon mercato. Rispetto a quanto accade non intendiamo, però, né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi. Non possiamo lasciare che inquietudini e paure condizionino le nostre scelte, determinino le nostre risposte, alimentino un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto.
Animati dal Vangelo di Gesù Cristo continuiamo a prestare la nostra voce a chi ne è privo. Camminiamo con le nostre comunità cristiane, coinvolgendoci in un’accoglienza diffusa e capace di autentica fraternità. Guardiamo con gratitudine a quanti – accanto e insieme a noi – con la loro disponibilità sono segno di compassione, lungimiranza e coraggio, costruttori di una cultura inclusiva, capace di proteggere, promuovere e integrare.
Avvertiamo in maniera inequivocabile che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita. Ogni vita. A partire da quella più esposta, umiliata e calpestata.
La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (19 luglio 2018)
*** *** *** ***
MIGRANTI 4 – Mauro Magatti
La nuova ideologia ci riporta indietro
“Sotto l’influenza dei nuovi discorsi politici, ci stiamo abituando a pensare che non tutti gli uomini sono uguali, che alcune vite valgono più di altre, che la dignità di ogni esistenza non costituisce il vincolo a cui la comunità politica deve cercare di attenersi”. Lo scrive Mauro Magatti, professore di sociologia all’Università Cattolica di Milano, in una riflessione sulla perdita della coscienza sociale e sulla nascita di una nuova ideologia che porta a “violenze verbali quotidiane; decisioni politiche esplicitamente incuranti delle loro conseguenze sul destino di un particolare gruppo di esseri umani; divisione della popolazione tra cittadini di serie A e (non) cittadini di serie B”. Un’ideologia che prende di mira i migranti, ma che rischia di coinvolgere tutti in una spirale di odio.
L' "effetto Lucifero" che brucia il senso comune
Il 1989 era stato salutato come l’anno della fine delle ideologie. L’anno, cioè, in cui finalmente avevamo imparato a guardare in faccia la realtà, risolvendo pragmaticamente i problemi sociali senza gli occhiali distorti di un pensiero astratto e pregiudiziale. Ma, a 30 anni di distanza, non sembra proprio che quell’aspirazione si sia realizzata. Semplicemente perché, come disse il presidente americano Franklin Roosevelt, «gli uomini non sono prigionieri del destino ma di quello che c’è nelle loro menti». Guardiamo dapprima i decenni alle nostre spalle: non è forse stata ideologica la visione di una globalizzazione progressiva e uniforme, capace di renderci tutti liberi individui fluttuanti in un mondo a possibilità crescenti, garantito dalla liberalizzazione finanziaria? E non è forse per la pervicacia di tale ideologia che le politiche adottate nel post 2008 sono state così poco incisive?
In fondo, gli ultimi dieci anni sono stati spesi nel tentativo di riparare i guasti della crisi immettendo enormi quantità finanziarie per non far crollare la fiducia dei mercati. Obiettivo meritorio, ma che ha tralasciato di affrontare i nodi di fondo: le regole della finanza, che rimane in larga parte dominata dalla speculazione, e il tarlo della disuguaglianza. Forse oggi, guardando retrospettivamente, è più facile riconoscere che abbiano vissuto quasi trent’anni sotto l’influenza di un potente «effetto Prometeo»: l’hybris di quegli anni è stata l’ illusione di aver trovato una sorta di «moderna pietra filosofale» (la finanza appunto) che ci avrebbe risolto tutti i problemi di scarsità.
La storia, però, non perdona le distorsioni che ogni ideologia porta con sé. E così da qualche anno, ormai in tutto il mondo, sta montando una reazione. Un fenomeno che non sappiamo ancora fin dove arriverà. Anche se nulla sarà più come prima. Ci sorprende che i fatti contino fino ad un certo punto. In queste settimane l’Europa si sta dilaniando sui migranti quando sappiamo che i flussi sono sostanzialmente diminuiti. Ma è chiaro che non sono gli ultimi mesi a poter cambiare la percezione. Sono gli anni alle spalle e soprattutto le previsioni future ad agitare le menti. Allo stesso modo, il senso di insicurezza sale mentre diminuiscono i crimini. Ma forse ciò stupisce chi vive nei pochi quartieri benestanti. Moltissime delle nostre periferie e semiperiferie sono luoghi anonimi dove una popolazione fragile e sola è costretta a fare i conti con una micro-violenza quotidiana che destabilizza la vita di chi si sente abbandonato dalla istituzioni. Infine, anche se la situazione economica – pur se non brillante – è oggi lontana dagli anni più bui, rimane prevalente il senso di insicurezza. Oltre che anemica, la ripresa crea lavoro instabile e poco pagato. Quanti sono quelli che dispongono di una condizione economica ragionevolmente stabile e prospera?
In questo clima controverso a crescere è una nuova ideologia – cioè una diversa interpretazione del mondo – che, invertendo la direzione di marcia degli ultimi decenni, mette l’accento su termini come sicurezza, identità, confine. Operazione non facile che, per essere realizzata, ha bisogno di una leva. Che è poi un nemico da combattere. «Costruzione» che ormai avviene ogni giorno, creando un nuovo senso comune, dove le élites cosmopolitiche (da Soros in giù), le banche e le burocrazie europee, la concorrenza di altri Paesi, gli immigrati delinquenti sono indicati come «il problema» da risolvere. Per il futuro, la via a cui si pensa è quella di un «capitalismo autocratico» – che sta già diventando norma in tutto il mondo – in un nuovo intreccio tra economia, politica e religione. Dove porta questo nuovo vento della storia? Difficile dirlo. Ogni epoca storica ha il suo demone criptato dalla ideologia che la governa.
Diversi segnali fanno pensare che la direzione sia quella che Zimbardo – uno psicologo di Yale – ha chiamato «effetto Lucifero». Secondo lo studioso americano, in determinate condizioni si registra una radicale trasformazione – fino ad arrivare alla perdita – della coscienza morale collettiva. Le violenze verbali quotidiane; le decisioni politiche esplicitamente incuranti delle loro conseguenze sul destino di un particolare gruppo di esseri umani; la divisione della popolazione tra cittadini di serie A e (non) cittadini di serie B, sono tutti fattori che spingono in questa direzione.
Sotto l’influenza dei nuovi discorsi politici, ci stiamo abituando a pensare che non tutti gli uomini sono uguali, che alcune vite valgono più di altre, che la dignità di ogni esistenza non costituisce il vincolo a cui la comunità politica deve cercare di attenersi. Come tensione e come sfida. La perdita del senso di comune umanità che ciò causa apre la strada a sviluppi imprevedibili. Al di là delle intenzioni degli attuali governanti, occorre rendersi conto della energia che si sta sprigionando dal profondo delle nostre società per effetto del riallineamento in corso. Guai a pensare di cavalcare la tigre. In un momento storico come quello che stiamo vivendo si rischia di finire dove nessuno vorrebbe arrivare.
*** *** *** ***
MIGRANTI 3 – Alex Zanotelli
Rompiamo il silenzio sull’Africa
L’appello di padre Alex Zanotelli, comboniano, è rivolto alle giornaliste e ai giornalisti italiani. Ma è un serio esame di coscienza per tutti noi, anche in Svizzera, credenti e non credenti. Quando lui parla e scrive, lo fa con passione. Perché è il fuoco della passione per i poveri e gli emarginati che ha infiammato la sua vita. E di fronte a silenzi – spesso complici – del mondo occidentale, proprio non riesce a stare zitto.
Questa volta chiede a chi le notizie le diffonde, di rompere la cortina di silenzio che circonda l’Africa. Un continente depredato, su cui oggi in molti puntano il dito per accusarlo di invadere i nostri territori e la nostra cultura. Senza rendersi conto (spesso per ignoranza e mancanza di informazioni) che se gli africani scappano dalla loro terra è perché quella terra è resa invivibile. Leggiamo questo suo appello cercando di farlo nostro. (L.M.)

Cari colleghi e colleghe,
scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media, purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!).
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa), ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’Onu.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!!)
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’«invasionne», furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al Sistema economico-finanziario. L’Onu si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: , dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’Eni a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti.
Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?). Per questo vi prego di rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Vigilanza sulla Rai e alle grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un‘altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
Alex Zanotelli (Napoli, 17 luglio 2017)
*** *** *** ***
MIGRANTI 2 – PAPA FRANCESCO
Le ingiustizie commesse nel silenzio
Oggi è il papa a parlare. Ha celebrato una messa per i migranti – presenti molti di loro – a cinque anni dalla sua visita a Lampedusa, dove si recò per piangere le centinaia di morti dell’ennesimo naufragio (qui trovate il video della giornata). Allora ebbe parole forti, dure, che non hanno però avuto quelle conseguenze che l’emozione del momento avrebbe sperato.
Ma la speranza non deve morire. I cristiani non devono smettere di dare voce al Signore che “promette ristoro e liberazione a tutti gli oppressi del mondo“. Perché il Signore “ha bisogno delle nostre mani per soccorrere. Ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizie commesse nel silenzio – talvolta complice – di molti“.
Dopo l’intervento di Giulio Albanese (La coscienza dei cristiani) che trovate più sotto, fermiamoci anche oggi a riflettere su questo fenomeno che ci interpella. E lasciamoci interrogare da papa Francesco. (L.M.)
SANTA MESSA PER I MIGRANTI
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Altare della Cattedra, Basilica di San Pietro
Venerdì, 6 luglio 2018
«Voi che calpestate il povero e sterminate gli umili […]. Ecco, verranno giorni in cui manderò la fame nel paese; […] fame di ascoltare le parole del Signore» (Am 8,4.11).
Il monito del profeta Amos risulta ancora oggi di bruciante attualità. Quanti poveri oggi sono calpestati! Quanti piccoli vengono sterminati! Sono tutti vittime di quella cultura dello scarto che più volte è stata denunciata. E tra questi non posso non annoverare i migranti e i rifugiati, che continuano a bussare alle porte delle Nazioni che godono di maggiore benessere.
Cinque anni fa, durante la mia visita a Lampedusa, ricordando le vittime dei naufragi, mi sono fatto eco del perenne appello all’umana responsabilità: «“Dov’è il tuo fratello? La voce del suo sangue grida fino a me”, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi» (Insegnamenti 1 [2013], vol. 2, 23). Purtroppo le risposte a questo appello, anche se generose, non sono state sufficienti, e ci troviamo oggi a piangere migliaia di morti.
L’odierna acclamazione al Vangelo contiene l’invito di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Il Signore promette ristoro e liberazione a tutti gli oppressi del mondo, ma ha bisogno di noi per rendere efficace la sua promessa. Ha bisogno dei nostri occhi per vedere le necessità dei fratelli e delle sorelle. Ha bisogno delle nostre mani per soccorrere. Ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizie commesse nel silenzio – talvolta complice – di molti. In effetti, dovrei parlare di molti silenzi: il silenzio del senso comune, il silenzio del “si è fatto sempre così”, il silenzio del “noi” sempre contrapposto al “voi”. Soprattutto, il Signore ha bisogno del nostro cuore per manifestare l’amore misericordioso di Dio verso gli ultimi, i reietti, gli abbandonati, gli emarginati.
Nel Vangelo di oggi, Matteo racconta il giorno più importante della sua vita, quello in cui è stato chiamato dal Signore. L’Evangelista ricorda chiaramente il rimprovero di Gesù ai farisei, facili a subdole mormorazioni: «Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”» (9,13). È un’accusa diretta verso l’ipocrisia sterile di chi non vuole “sporcarsi le mani”, come il sacerdote e il levita della parabola del Buon Samaritano. Si tratta di una tentazione ben presente anche ai nostri giorni, che si traduce in una chiusura nei confronti di quanti hanno diritto, come noi, alla sicurezza e a una condizione di vita dignitosa, e che costruisce muri, reali o immaginari, invece di ponti.
Di fronte alle sfide migratorie di oggi, l’unica risposta sensata è quella della solidarietà e della misericordia; una riposta che non fa troppi calcoli, ma esige un’equa divisione delle responsabilità, un’onesta e sincera valutazione delle alternative e una gestione oculata. Politica giusta è quella che si pone al servizio della persona, di tutte le persone interessate; che prevede soluzioni adatte a garantire la sicurezza, il rispetto dei diritti e della dignità di tutti; che sa guardare al bene del proprio Paese tenendo conto di quello degli altri Paesi, in un mondo sempre più interconnesso. E’ a questo mondo che guardano i giovani.
Il Salmista ci ha indicato l’atteggiamento giusto da assumere in coscienza davanti a Dio: «Ho scelto la via della fedeltà, mi sono proposto i tuoi giudizi» (Sal 119,30). Un impegno di fedeltà e di retto giudizio che ci auguriamo di portare avanti assieme ai governanti della terra e alle persone di buona volontà. Per questo seguiamo con attenzione il lavoro della comunità internazionale per rispondere alle sfide poste dalle migrazioni contemporanee, armonizzando sapientemente solidarietà e sussidiarietà e identificando risorse e responsabilità. (…)
Chiedo allo Spirito Santo di illuminare la nostra mente e di infiammare il nostro cuore per superare tutte le paure e le inquietudini e trasformarci in docili strumenti dell’amore misericordioso del Padre, pronti a dare la nostra vita per i fratelli e le sorelle, così come ha fatto il Signore Gesù Cristo per ciascuno di noi.
*** *** *** ***
MIGRANTI 1 – GIULIO ALBANESE
La coscienza dei cristiani
di Luigi Maffezzoli
Il tema delle migrazioni è il tema epocale. Le giovani generazioni si ritroveranno – nel bene e nel male – a costruire (nel bene) una nuova società dove i migranti diventeranno parte integrante; e a subire (nel male) le conseguenze di un clima di odio, di xenofobia, di razzismo pari solo a quello che ha preceduto la seconda guerra mondiale.
Occorre prenderne coscienza e prepararsi. Anzi, occorre costruire una coscienza nuova, che si fondi sul messaggio del vangelo, che dà senso alla nostra vita e che dà senso al dono totale della nostra vita. L’Azione Cattolica deve formare questa generazione nuova di cristiani.
Proporremo allora una serie di riflessioni su questo tema. Cominciamo da questa riflessione di don Giulio Albanese, apparsa su Città nuova, che voglio condividere con voi. Seguiteci su questa pagina per leggere anche altro.
La coscienza dei cristiani
DIOCESI
Vicini al Vescovo
e agli amici del Giornale del Popolo
L’Azione Cattolica Ticinese, venuta a sapere della decisione di chiudere il Giornale del Popolo, vuole esprimere tutta la sua vicinanza ai collaboratori e agli amici toccati da questo provvedimento.
Purtroppo viene a mancare una voce storica e determinante nel panorama mediatico ticinese e ciò comporta un impoverimento della pluralità di informazione; che questa voce sia proprio quella cristiana ci rattrista ancora di più.
Inoltre dimostra grande vicinanza a tutti i professionisti del giornale che negli anni ci hanno sempre dato risonanza con articoli, interviste, pagine fotografiche tendendoci una mano nel momento del maggiore bisogno e al Vescovo Valerio per la dolorosa scelta che è stato costretto a prendere.
L’associazione aderirà con piacere ad ogni forma di sostegno del giornale e dei suoi dipendenti con segni tangibili e invita i propri aderenti a fare altrettanto.
**************
VITA DI AC – 26 maggio 2018
Paola Bignardi a Lugano
Paola Bignardi è una figura significativa per la Chiesa di questi anni. Prima donna (e finora unica) a ricoprire la carica di Presidente nazionale dell’Azione Cattolica italiana (dal 1999 al 2005) è stata membro del Pontificio Consiglio dei laici. Lo scorso 9 aprile, a Roma, era fra le tre personalità chiamate a presentare alla stampa l’esortazione di Papa Francesco sulla santità, “Gaudete et exsultate”.
Pubblicista e pedagogista (ha diretto il quindicinale “Scuola Italiana Moderna”), ha scritto e pubblicato moltissimi contributi sul tema del laicato e delle donne. Molti di noi la conoscono anche perché ha seguito da vicino il cammino della nostra ACT: sia nei primi anni della sua ripresa, sia perché è stata una delle relatrici al convegno del 150° nell’ottobre 2011.
E Paola Bignardi torna fra noi sabato 26 maggio, alle ore 10, con la conferenza promossa dall’Unione Femminile che la vedrà intervenire nell’ambito del ciclo “Le donne ai tempi di Papa Francesco”. Porterà la sua riflessione e la sua esperienza maturate in questi anni al servizio della Chiesa e della società. Un’occasione privilegiata e straordinaria di incontrare e conoscere Paola .
Il programma della giornata prevede anche, per chi lo desidera, il pranzo in comune dalle Suore di Santa Brigida, informando prima il nostro segretariato (0919508464).
Nel pomeriggio poi, a partire dalle ore 14 al Centro San Giuseppe, sempre a Lugano, ci sarà l’assemblea annuale dell’Azione Cattolica ticinese.
**************
VITA DI AC
La bisaccia del pellegrino Ac
Quello dell’Azione cattolica è uno splendido cammino sulle strade della Chiesa e del Paese. Come per ogni viaggio, anche in Ac si parte con lo zaino in spalla, con la bisaccia tanto cara a chi tra i soci ha qualche anno in più. Un bagaglio carico, e pur leggero allo stesso tempo. Cosa c’è dentro l’ha ben riassunto il presidente dell’Azione cattolica italiana, Matteo Truffelli, in un recente convegno tenutosi a Roma. Una mappa delle strade che ci sono state assegnate dalla vita.
L’“Evangelii gaudium”, da Conoscere, Comprendere, Attuare. Con ben sottolineati, i quattro principi che attraversano il magistero di papa Francesco: – il tempo è superiore allo spazio; – l’unità prevale sul conflitto; – la realtà è più importante dell’idea; – il tutto è superiore alla parte.
E poi: una copia dei discorsi che Francesco ha rivolto all’Azione cattolica italiana il 27 e il 30 aprile del 2017, in occasione delle celebrazioni per la nascita dell’Associazione e all’incontro con i rappresentanti delle Ac di tutto il mondo. Come dimenticare quel: “Non siate dogane. Non potete essere più restrittivi della stessa Chiesa, né più papisti del Papa: Aprite le porte, non fate esami di perfezione cristiana, così facendo promuoverete un fariseismo ipocrita. C’è bisogno di misericordia”.
L’Azione cattolica – ha ricordato Truffelli – o è missionaria o non è Azione cattolica. Ecco perché, insieme alla bisaccia, allo zaino, quelli dell’Ac portano con sé sempre un saldo bastone da viaggio: oggi, in particolare, è l’Apostolato. Insieme – alla bisogna, ieri e oggi – ci sono Preghiera, Formazione e Sacrificio: ecco infatti l’intero set di “bastoni da viaggio Ac”; ciò su cui ha poggiato il lungo cammino della più che secolare storia dell’Azione cattolica. Infine, nelle tasche dello zaino una buona bussola che indica con chiarezza la direzione “verso il popolo”.
E sì – sia chiaro a tutti – l’Azione cattolica non può stare lontano dal popolo, ma viene dal popolo e deve stare in mezzo al popolo. “Non è una questione d’immagine ma di veridicità e di carisma”, ci ricorda Francesco. Non è neppure demagogia, ma seguire i passi del maestro. È una sfida alla maternità ecclesiale dell’Azione cattolica; stare tra la gente, ricevere tutti e accompagnarli nel cammino della vita con le croci che portano sulle spalle.
**************
CRISTO è RISORTO
**************
VENERDÌ SANTO
Ore 15: fermiamo il lavoro
In anni passati, l’Azione Cattolica proponeva a tutti i suoi aderenti di fermarsi un attimo in raccoglimento allo scoccare delle 15, nel giorno del Venerdì Santo.
Giorno lavorativo, qui in Ticino, che impedisce quindi alla maggior parte delle persone (che ancora lo desidererebbero fare…) di partecipare alla funzione della morte in croce di Gesù.
Ecco allora una proposta, che potrebbe diventare anche testimonianza: fermarsi da ogni attività, là dove ci si trova, per un breve momento di preghiera. È un modo per non dimenticarsi, in tempi di social e di perdita della Memoria, di ciò che ci contraddistingue come cristiani: l’offerta della propria vita perché tutti possano salvarsi.
**************
RICORRENZE
Giornata in memoria dei missionari martiri
Il 24 marzo 1980, mentre celebrava l’Eucarestia, venne ucciso Monsignor Oscar A. Romero Vescovo di San Salvador nello Stato centroamericano di El Salvador.
La celebrazione annuale di una Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri,
il 24 marzo, prende ispirazione da quell’evento sia per fare memoria di quanti lungo i secoli hanno immolato la propria vita proclamando il primato di Cristo e annunciando il Vangelo fino alle estreme conseguenze, sia per ricordare il valore supremo della vita che è dono per tutti. Fare memoria dei martiri è acquisire una capacità interiore di interpretare la storia oltre la semplice conoscenza.
**************
RIFLEIIONI
Il digiuno cristiano
di Enzo Bianchi
Il mangiare appartiene al registro del desiderio, deborda la semplice funzione nutritiva per rivestire rilevanti connotazioni affettive e simboliche. L’uomo, in quanto uomo, non si nutre di solo cibo, ma di parole e gesti scambiati, di relazioni, di amore, cioè di tutto ciò che dà senso alla vita nutrita e sostentata dal cibo. Il mangiare del resto dovrebbe avvenire insieme, in una dimensione di convivialità, di scambio che invece, purtroppo e non a caso, sta a sua volta scomparendo in una società in cui il cibo è ridotto a carburante da assimilare il più sbrigativamente possibile.
Il digiuno svolge allora la fondamentale funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente centrale. E tuttavia sarebbe profondamente ingannevole pensare che il digiuno – nella varietà di forme e gradi che la tradizione cristiana ha sviluppato: digiuno totale, astinenza dalle carni, assunzione di cibi vegetali o soltanto di pane e acqua -, sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione. Il mangiare rinvia al primo modo di relazione del bambino con il mondo esterno: il bambino non si nutre solo del latte materno, ma inizialmente conosce l’indistinzione fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli “mangia”, introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica la sua personalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza simbolica del digiuno è assolutamente peculiare e che esso non può trovare “equivalenti” in altre forme di rinuncia: gli esercizi ascetici non sono interscambiabili! Con il digiuno noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri molteplici appetiti attraverso la moderazione di quello primordiale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre tentate di voracità.
Il digiuno è ascesi del bisogno ed educazione del desiderio. Solo un cristianesimo insipido e stolto che si comprende sempre più come morale sociale può liquidare il digiuno come irrilevante e pensare che qualsiasi privazione di cose superflue (dunque non vitali come il mangiare) possa essergli sostituita: è questa una tendenza che dimentica lo spessore del corpo e il suo essere tempio dello Spirito santo. In verità il digiuno è la forma con cui il credente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo, è antidoto alla riduzione intellettualistica della vita spirituale o alla sua confusione con lo psicologico.
Certamente, poiché il rischio di fare del digiuno un’opera meritoria, una performance ascetica è presente, la tradizione cristiana ricorda che esso deve avvenire nel segreto, nell’umiltà, con uno scopo preciso: la giustizia, la condivisione, l’amore per Dio e per il prossimo. Ecco perché la tradizione cristiana è molto equilibrata e sapiente su questo tema: “Il digiuno è inutile e anche dannoso per chi non ne conosce i caratteri e le condizioni” (Giovanni Crisostomo); “E’ meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli” (Abba Iperechio); “Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi” (Isidoro il Presbitero).
Sì, noi siamo ciò che mangiamo, e il credente non vive di solo pane, ma soprattutto della Parola e del Pane eucaristici, della vita divina: una prassi personale ed ecclesiale di digiuno fa parte della sequela di Gesù che ha digiunato, è obbedienza al Signore che ha chiesto ai suoi discepoli la preghiera e il digiuno, è confessione di fede fatta con il corpo, è pedagogia che porta la totalità della persona all’adorazione di Dio.
In un tempo in cui il consumismo ottunde la capacità di discernere tra veri e falsi bisogni, in cui lo stesso digiuno e le terapie dietetiche divengono oggetto di business, in cui pratiche orientali di ascesi ripropongono il digiuno, e la quaresima è sbrigativamente letta come l’equivalente del ramadan musulmano, il cristiano ricordi il fondamento antropologico e la specificità cristiana del digiuno: esso è in relazione alla fede perché fonda la domanda: “Cristiano, di cosa nutri la tua vita?” e, nel contempo, pone un interrogativo lacerante: “Che ne hai fatto di tuo fratello che non ha cibo a sufficienza?”.
**************
Venerdì 23 febbraio 2018: giornata di digiuno e preghiera per la pace
Lo ha annunciato nel corso della preghiera dell’Angelus di domenica 4 febbraio: papa Francesco ha invitato ad una Giornata di preghiera e di digiuno per la pace per venerdì 23 febbraio. L’invito è di pregare in particolare per le popolazioni della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan.
Papa Francesco ha invitato anche i membri di altre religioni ad associarsi all’iniziativa, nelle forme che riterranno più opportune. Il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, consapevole che le religioni possono contribuire grandemente all’ottenimento e al consolidamento della pace, sarà grato ai fratelli e alle sorelle di altre religioni che vorranno accogliere tale appello e vivere momenti di preghiera, digiuno e riflessione secondo la propria tradizione e nei propri luoghi di culto.
**************
**************
Azione cattolica adulti e famiglie: chi siamo?
Il settore “Adulti e Famiglie” dell’Azione Cattolica Ticinese (ACAF), si distingue in “Adulti” (aderenti a partire dai 30 anni) e “Famiglie” (al più presto al momento del matrimonio).
Il cammino degli “Adulti” è abbastanza eterogeneo in quanto ha l’obiettivo di far convergere e avvicinare le diverse realtà dell’ACT.
Il programma prevede attività di carattere generale per favorire gli incontri fra adulti e giovani, famiglie e persone sole, ecc… tale da sviluppare piuttosto la formazione personale dei singoli partecipanti. Durante l’anno pastorale sono previsti incontri secondo il calendario. Per informazioni rivolgersi al Segretariato.
Il cammino delle “Famiglie”, prevede una formazione più specifica e strutturata su temi legati al matrimonio e all’educazione dei figli. Gli incontri favoriscono l’unità delle famiglie e fra le famiglie.
Per facilitare la formazione personale dei giovani adulti, non ancora sposati, è possibile organizzare un cammino specifico per questa fascia d’età.
Il settore degli adulti di AC si caratterizza per incontri o attività che promuovono la formazione individuale della persona, la quale non necessariamente si confronta, come negli altri settori, con persone della stessa fascia d’età (vedi il settore ragazzi o giovani) o che riflettono su tematiche strettamente legate al proprio stato (vedi settore famiglie). Rappresenta dunque il settore “cappello”, quello che può raccogliere tutti, anche chi non sente di avere, o non trova, una precisa collocazione in altri settori; quello dove chiunque, singolo o sposato, anziano o giovane, vedovo o divorziato, può chinarsi su aspetti che toccano prevalentemente il proprio essere persona in relazione alla fede, ai fratelli, alla Chiesa.
Per questa ragione, ad eccezione di qualche attività ricreativa come le gite estive in montagna, le attività sono piuttosto orientate sulla formazione personale. Ci sono i ritiri spirituali alla Montanina di Camperio che si sviluppano su due giornate e poi ci sono gli incontri serali. Alcuni di questi incontri vengono guidati dal Vescovo, altri dai nostri assistenti, altri ancora vengono “autogesti”. Solitamente si tratta il tema dell’anno o quello proposto dal Vescovo nella lettera pastorale.
Gli adulti inoltre si fanno carico in modo particolarmente marcato degli incontri unitari come l’assemblea, la preghiera perenne, la Veglia d’Avvento e altre attività non specifiche per giovani o famiglie.